L'uomo di carta

L'uomo bianco (1907)
Lyonel Feininger
Era l’ora delle streghe quando vidi un uomo di carta vagare solo e smemorato per le vie della città. Cercava la propria casa sfilando nel silenzio della notte con la sua silhouette sottile e immacolata come se la vita non l'avesse mai vergato. Camminava ondeggiando sul marciapiede, flettendo sinuosamente la striscia del corpo, attento a non bagnarsi i piedi nel canale di scolo dell'acqua. Aveva appena smesso di piovere e la luna rincantucciatasi dietro un cespuglio di nuvole si affacciava ogni tanto per dare luce al mondo.
L'uomo non conosceva pensieri: forse non ne aveva nemmeno a quest’ora della notte. La sua falcata morbida e leggera riverberava contro la facciata delle case che si allungavano ai margini della strada in due file frastagliate e spigolose. Sembravano fatte d’aria, con le loro finestre senza vetri, buie e spalancate sulla fragilità umana.
D’improvviso, un turbine di vento si svegliò dal fondo di un portone e risucchiò via l’uomo trascinandolo su attraverso la tromba delle scale fin dentro una stanza anonima all’ultimo piano dove poi si perse inghiottito dal suo stesso vortice.
L’uomo si guardò attorno. La stanza era cieca: un cubo senza finestre, né porte, niente quadri alle pareti e nessun arredamento, nemmeno un lampadario a illuminare le notti dimenticate dalla luna. Eppure una tenue luce c’era: sembrava sprigionarsi dalle pareti incancrenite dalla noia.
L’uomo fece il giro della stanza, carezzando i suoi muri ruvidi e polverosi. Subito la casa ondeggiò, tutta eccitata, mugolando di piacere. Allora l'uomo spaventato ritrasse la mano da quella pelle secca e pulsante di libidine e scappò fuori dall'appartamento. Sul pianerottolo incrociò una banda di ratti di plastica che fuggivano giù per le scale.
— Scappa, amico, prima che la casa ti mangi — gli gridò il più grosso fra essi.
— Perché dovrebbe farlo?
— Fa così con tutti quelli che le piacciono. Ti ha assaggiato e le sei piaciuto: e ora ti vuole.
L’uomo si voltò e vide una lingua schiumosa protendersi verso di lui dalle fauci della porta. Inorridito si precipitò giù per le scale in mezzo alla torma di topi. In un attimo fu fuori, ma continuò a correre fino all'altro lato della strada.
— Ehi, aspetta! — gridò al topo che lo aveva esortato a scappare. — Chi sei? e come facevi a sapere che la casa voleva mangiarci?
Il topo si fermò drizzandosi sulle zampe posteriori: — È così: le case vuote hanno sempre fame.
— Già... — commentò l'uomo pensieroso.
— E tu, cosa ci fai qui? — domandò il topo.
— A dire il vero non lo so. Mi sono perso. Cercavo di ritrovare la mia casa, ma devo avere sbagliato città. Qui è tutto così diverso da dove abito io. La città sembra abbandonata.
— Oh, non ci fare caso — disse il topo strofinandosi i baffi con le zampette. — Qui tutto ti sembra diverso, perché tu sei diverso. In questa città non ci abita più nessuno da tanto, troppo tempo: ormai sono diventati tutti di passaggio. Prosegui il cammino: in fondo alla strada troverai la risposta. Ora scusami, ma devo raggiungere i miei amici. Ah, un’ultima cosa: ricordati di rimanere sempre al centro della strada, lontano dalle case affamate. Addio e buona fortuna.
Il topo ondeggiò la coda in segno di saluto e poi trotterellò via dileguandosi nei meandri della notte.
L’uomo si ritrovò di nuovo solo.
— Chissà cosa ha voluto dire — rimuginò tra sé. Poi, sommerso da mille e uno dubbi riprese il cammino marciando nel mezzo, lontano dai marciapiedi e dalle case. Forse la risposta era veramente in fondo alla strada.


Non ho mai sognato niente di così allucinato e provocatorio. La sua storia e le sue immagini continuano a frullarmi nella testa. Ancora non so quali significati si celino dietro i suoi simboli, ma rimane il profumo della sua metafora così soavemente invadente e appiccicosa come una favola per bambini.

Dormivo in mezzo al coro

La camera da letto di Vincent ad Arles (1888)
Vincent Van Gogh
Ho sognato di dormire nel mio letto. Intorno a me sentivo alcune voci che mi sembrava di conoscere. Parlavano di me, in termini gentili, dicevano “guarda, dorme come un bambino, raggomitolato in una posizione impossibile, com'è pacifico e sereno”. Mi piaceva ascoltare i loro commenti. In un certo senso ero sveglio, ma non potevo muovermi: il mio corpo era immobilizzato dal sonno in una posizione strana. Non avendo la sensibilità nelle membra, non capivo se ero coperto dalle lenzuola o se mi trovavo adagiato sopra di esse. Avrei voluto girarmi, ma qualcosa dentro m'impediva di comandare le mie membra. Ero troppo stanco.
L'ultima cosa che ricordo è di essere entrato nella mia stanza per prendere l'orologio. L'avevo trovato sul comodino e quando me lo sono allacciato al polso ho notato che non c'era più la lancetta delle ore, mentre quella dei minuti scattava avanti e indietro da una parte all'altra del quadrante. Mi parve che il tempo fosse saltato via dalla stanza. Poi un grande sonno mi ha sopraffatto: sono caduto nel letto e mi sono addormentato.

Quando mi sono risvegliato ho avuto subito l'impressione di avere visitato un altro luogo. Quelle voci erano di persone morte. Una di loro in particolare mi ha ricordato l'anziana inquilina che viveva da sola nell'appartamento sottostante circondata dalle sue petunie, che amava come fossero delle figlie. Nelle sere di primavera la sentivo dalla finestra aperta accarezzare i suoi fiori con la stessa voce flebile del mio sogno.
Per quanto mi sforzi non riesco a trovare altro significato se non che ero giunto in un altro luogo dove non mi è permesso entrare da sveglio (o da vivo?): perciò il mio corpo era addormentato, mentre io ero sveglio.